Bolzano, la ricerca, la scrittura.

Sono su un treno diretto a Bolzano, dove ho vissuto da novembre 2019 a marzo 2021. L’ultima volta che l’ho visitata è stata due anni fa. Devo molto alla città altoatesina, nonostante a fasi alterne la ricordi con la nostalgia riservata alle grandi storie d’amore e come un cappio che mi ha quasi soffocata. Ho impiegato due anni a elaborare quella vita, ma anche la decisione di abbandonarla. Del resto, i rapporti più profondi sono tele emotive complesse e cariche di colore, comprese le tonalità più scure. Quel periodo è stato intenso, a volte traumatico. Su un altro social network ho fatto la cronaca del ricovero in ospedale durante la pandemia, ma con un tono pressoché leggero e con l’obiettivo di tenere alto il morale. Non ho mai raccontato, però, come l’esperienza bolzanina abbia influito su due scelte fondamentali della mia vita: tornare stabilmente in Romagna e aprire la partiva iva.

Adesso, mentre viaggio verso i miei amici (con la speranza di sciogliere il mio inglese arrugginito grazie a un Lagrein bevuto al Picchio), penso che farlo possa essere un’opportunità per raccontare anche il mio lavoro attuale.

Il dottorato di ricerca e il lavoro di scrittura

L’idea che la scrittura potesse avere a che fare con il mio futuro ha cominciato a farsi spazio quando ho iniziato il dottorato in Ingegneria Alimentare. Non è stata un’illuminazione, né un ragionamento: la mia mente ha giocato d’astuzia, si è presa il suo tempo, è stata un coccodrillo nascosto appena sotto la superficie dell’acqua, in attesa della preda. Se pensate che ci sia qualcosa di disfunzionale nel percepire la propria mente con alterità e identificarla in un animale così pericoloso, probabilmente avete ragione, ma di queste cose parlo solo con il mio psicoterapeuta.

Sono venuta a Bolzano perché trovavo stimolante l’idea di fare della ricerca il mio lavoro, e il dottorato ha confermato questa mia passione. Ho sbagliato l’ambito in cui esercitarla, ma il PhD è stato comunque estremamente formativo e ha plasmato il mio approccio professionale.

Non esiste, infatti, scrittura senza ricerca:

  • se devo descrivere un prodotto, devo studiarlo, capire come è nato e perché, quali sono i vantaggi che derivano dal suo utilizzo, ma anche i punti deboli;
  • non posso realizzare un company profile senza conoscere le origini di un’azienda, le tappe che ne hanno definito la crescita e con quale sguardo si rivolge al futuro;
  • quando un autore mi chiede di valutare un suo testo o di affiancarlo nella revisione, divento una figura polimorfa: cercatrice d’oro, investigatrice, psicologa. Chi ho di fronte? Cosa vuole esprimere? Perché lo sta facendo utilizzando proprio queste parole?

Tutto ciò può sembrare lontano dallo studio che caratterizza soprattutto il primo anno del dottorato di ricerca, ma non è così. Ancora oggi, quando devo scrivere o analizzare un testo, seguo lo stesso iter con cui cercavo di raccapezzarmi tra manuali di elettronica e i paper sulla bioimpedenza: si parte dalle nozioni di base, si legge quello che hanno già prodotto gli altri, cercando di capirne il processo creativo e la struttura del lavoro. Poi si passa all’organizzazione, si decide il taglio da dare, quale aspetto approfondire. Nulla è dato per scontato e seguo un ragionamento dal generale al particolare, per trovare e sviluppare il dettaglio che fa la differenza.

La parola come contenitore: la ricerca della giusta dimensione

Scrivere il mio primo (e unico) conference paper è stato delirante. La prima bozza era illeggibile, la seconda anche. Non ricordo quante volte il mio amico e collega Pietro lo abbia corretto. Una volta eliminati gli errori grossolani, è cominciato un lavoro certosino sulla terminologia. I paper di ricerca sono l’emblema della sintesi: anche quando sembrano lunghissimi, non lo saranno mai quanto il tempo dedicato all’indagine descritta. Ecco, quindi, che il peso di ogni singola parola sul risultato finale aumenta.

Immaginiamo la parola come un contenitore: capita di sceglierne uno più capiente del necessario e, una volta riempito, gli oggetti al suo interno si muoveranno nell’interstizio tra uno e l’altro. In quello spazio di manovra alloggiano due personaggi con cui scrittori, copywriter e giornalisti convivono ogni giorno: l’interpretazione e l’imprecisione. Nella scienza, sono entrambe grandi nemiche dei ricercatori (la prima limitatamente alla scrittura): il recipiente non può essere troppo grande, né troppo piccolo, altrimenti non conterrebbe il significato esatto che vogliamo esprimere. La ricerca della giusta misura, mi viene in mente mentre sto scrivendo, è ciò attorno cui girava la mia tesi.

Forse per questo fatico a smarcarmi dalla ricerca maniacale sulla parola, ora l’interpretazione è una mia grande alleata, ma la genericità rimane una preoccupazione. Una persona che sceglie una parola troppo generica per spiegare cosa fa, dimostra di non aver interiorizzato la materia. Qualcuno potrebbe dire che i tecnicismi sono poco appetibili e annoiano l’interlocutore. Sono d’accordo, per questo chi fa spesso non coincide con chi racconta: per una scrittura accattivante, quest’ultimo ha il dovere di utilizzare i termini giusti e, si spera, la capacità di spiegarli e utilizzarli in maniera semplice.