Parole brutte e parole che salvano

Sto aiutando una mia amica con la correzione della sua (seconda, forse terza) tesi magistrale. La mia amica è una ragazza speciale, sempre con il sorriso sulle labbra e una sensibilità che non la travolge, bensì le permette di essere sempre vicina al prossimo: è un’infermiera e la laurea è in Antropologia. La tesi riguarda lo strumento narrativo come parte integrante della cura su pazienti oncologiche. Al punto in cui sono ora si analizza la parola “cancro”, dalla sua etimologia alle reazioni che gli altri – quelli sani, fino a prova contraria – hanno quando le loro orecchie vengono in contatto con essa, a volte prima ancora di incontrare il malato.

Lei non lo sa, ma a ottobre è morta di tumore una signora che mi aveva commissionato una scheda di valutazione editoriale. Voleva un editing, ma per me il suo testo aveva delle problematiche troppo importanti per intervenire direttamente, aveva bisogno di essere completamente rivisto. Avevo chiesto un mese, mi ha dato venti giorni e io ho alzato il prezzo. Non mi ha mai parlato della sua malattia, ne ero a conoscenza per vie traverse.

Quando è morta non ho avuto particolari reazioni. Le persone muoiono, è la prassi.

La sua storia non parlava della malattia che stava affrontando, neanche un po’. Era qualcosa di precedente all’esperienza che stava attraversando, che si portava dentro da tempo e che desiderava raccontare. Oggi penso che sia stato proprio il suo ultimo desiderio e il suo ultimo impegno. Una ragione di vita.

Non tutti, ma molti di noi sognano di essere riconosciuti per quello che fanno.

Non tutti, ma molti di noi pensano di essere legittimati a fare una cosa solo se dimostrano costantemente di saperla fare: sempre bene, sempre meglio e sempre meglio di qualcun altro.

Il mese prossimo inizio un nuovo lavoro e ho detto al mio ragazzo che non so se sarò brava. Lui mi ha fatto notare che non è il miglior musicista sulla faccia della terra e, di qui a stringere, probabilmente non è neanche il migliore in città: “Quindi dovrei smettere di suonare?” No, non dovrebbe. Lo so io, lo sa lui, lo sa chiunque veda la sua dedizione e la serenità che ne ricava, trasmettendola poi a chi lo ascolta.

Il resto sono tutte cazzate. Dobbiamo riconoscerci per quello che siamo, e quello che facciamo deve essere motivo di soddisfazione per noi stessi. Vale anche per voi, quelli che scrivono ma preferiscono dire che scribacchiano. Non scriviamo per gli altri, scriviamo per noi stessi. Siamo scrittori anche se otto ore al giorno le passiamo nell’ufficio vendite di qualche azienda, davanti a una classe di adolescenti, anche se lavoriamo il legno o aggiustiamo le caldaie. Se le pagine scritte nei ritagli di tempo sono l’elemento in cui ci identifichiamo, siamo quelle pagine: perché lo siamo per noi. Le bollette andranno pagate comunque, ma superare la coltre di doveri e aspettative e trovare il giusto incastro con noi stessi rende l’ingranaggio più funzionale. A cosa? A vivere.


Silvia, spero che tu sia riuscita almeno a cominciare il lavoro che avevi in mente. Spero che questo ti abbia distratto da una condizione di cui eri fin troppo consapevole. Te ne sei andata via da scrittrice, te ne sei andata curandoti.

 

L’immagine in copertina è di Victoria Strukovskaya su Unsplash