Luoghi e linguaggi

Prima o poi metterò a lavare la felpa che uso come pigiama, la stessa che indosso quando cucino e faccio le pulizie.

Sabato ho incontrato un ragazzo per avere un parere su un autore da contattare. Di lui ha detto “Si vede che si è mangiato tutto Dostoevskij” o forse “Si sente che ha letto tutto Dostoevskij”, non ricordo bene. Mentalmente, ho provato a elencare quali libri avessi letto di Dostoevskij e un neurone ha preso l’iniziativa di inviare un impulso nervoso alla bocca per farmi dire “La metamorfosi”; per fortuna un altro si è lanciato su di lui con una mossa di wrestling al grido di “zitto, coglione!”, innescando una silenziosa rissa che ha tranciato il segnale, salvandomi da una figura di merda. Più tardi sono andata su internet, perché non ricordavo chi avesse scritto Guerra e Pace, pur sapendo che neanche quella è un’opera kafk…ehm, volevo dire di Dostoevskij.

Questo ragazzo. È un fotografo, credo gli piacciano le geometrie, è uno di quelli che fanno parlare i luoghi. Mi ha regalato il catalogo di una sua mostra, mentre lo sfogliavo pensavo a quanto devo essere arida per non riuscire a comprendere ciò che una facciata in cemento vuole trasmettermi. E dire che la fotografia è uno strumento dell’uomo moderno, capace di tradurre in un linguaggio familiare ciò che il paesaggio urbano vuole raccontare. Io, però, continuo a sentirmi spaesata di fronte allo statico mutismo delle sue pareti.

Questo ragazzo. Ha una madre messicana. L’ho scoperto il giorno prima di incontrarlo e ho passato buona parte del nostro appuntamento – avevo un antinfiammatorio in circolo e bevevo un alcolico color verde veleno, termine con cui indico quello che in realtà si chiama Verde Parigi – a cercare una prova dei suoi cromosomi d’oltreoceano, ma pare che la caparbietà romagnola abbia prevalso fin dal concepimento. Durante i nostri successivi incontri mi è sembrato di intravedere qualche lineamento estero, per esempio agli angoli della bocca, oppure nel taglio degli occhi. Ma come una telecamera, poi mi muovevo all’indietro per riprendere la figura intera e mi mi dicevo: “Maria, ti stai suggestionando, perché vuoi parlare in spagnolo e scoprire altre parolacce, oltre a quella solita che si sente in Narcos”. Non escludo, però, che i suoi tratti esotici siano riconoscibili alla maggior parte della gente e sia il mio occhio pigro a non coglierli, così come non entra in empatia con gli edifici fotografati.

A proposito di persone latinoamericane, oggi ho scritto a Martina dopo quattro mesi. Martina è italiana, milanese per l’esattezza. Deve aver esclamato “Mi ha scritto Maria!” mentre era a lavoro con Pietro, che allora mi ha mandato un messaggio, dopo quattro mesi. Pietro è sardo. Entrambi vivono a Bolzano. Però Pietro ha studiato a Valencia, come me. Ho chiesto a Martina di scendere per Pasqua, ma si sta organizzando per andare da Sahira, la nostra amica con il nome di origine araba e i capelli neri a spaghetto come un’indiana. È della Repubblica Domenicana e si è appena trasferita a Granada.

“CIAO SAHIRA”.

“Ven a visitarme”.

Il nostro silenzio era stato altrettanto lungo, fino a quel momento. Le ho mandato l’elenco dei miei bar preferiti a Granada, uno dei miei luoghi dell’anima.

A Granada ho imparato il poco spagnolo che so, una lingua che amo, ma che purtroppo sto dimenticando. Oggi, però, ho comprato la versione originale di un libro che ho appena finito: mi sono innamorata di Guadalupe Nettel, scrittrice messicana. Con coraggio parla della e alla parte più intima dell’essere umano impiegando ciò che sta al di fuori (il correttore automatico aveva scritto “fiori”, ero tentata di lasciare quella parola, perchè il libro si intitola Petali) e che spesso viviamo con indifferenza. Come se oggetti, animali, piante e ambiente fossero solo lo sfondo dell’unica interazione possibile, quella uomo-uomo. I suoi personaggi, invece, sono raccontanti attraverso i luoghi che frequentano, gli odori che emanano e che li attirano, descrivendo quello che vedono sbirciando dalla finestra. Voglio conoscere le sue parole, quelle con cui è riuscita a dar voce alla parte più scomoda della mia interiorità.

 

18 ottobre 2018
Granada, como podría hacer ahora?
Cada una persona tienes proprio via y la mia me has portado aquí… estoy exactamente donde quería de estar. Una ciudad que ha hecho la pietra – que es siempre un símbolo duro, potente – colorada, emocionante, caliente. Las murallas de Granada son muros de casa. Ciudad de cuestas, que me ha llamado en cada una partes para que no me perdía un jardine, un paesaje, una proba de la sua historia, un color, un diseño, una luz especial. Me latía el corazón mientras escribo eso y pienso que en la mí cabeza todo estaba en descenso. La ultima vez que un lugar ha entrado en el mí corazón, he esperado seis años para volver…No he partida todavia y ya me faltas mucho, así creo que también no podré volver temprano… entonces, espero que tendré las enseñanzas con migo por mucho tiempo para estar bien en Italia como aquí. Gracias Granada, te quiero muchísimo.

Gian Marco ha un sito fermo al 2018. È stato fatto con un programma che non esiste più, quindi non si può aggiornare. Se lo tiene così: tendenzialmente in bianco, a seguire il nero, qualche colore ogni tanto; immobile, ma con un sacco di finestre, porte, garage, vetri opachi, cancelli qualunque cosa sia un varco – aperto o chiuso – da cui si intuisce l’esistenza di una realtà altra. Questa, di solito, tocca immaginarla: è nascosta dietro un perimetro concreto, che Gian Marco non attraversa. Non è un tipo invadente e non ha bisogno di intrufolarsi nel privato: percepisce le superfici architettoniche e ne conosce il linguaggio fatto di luci, linee e prospettive, registrando con la macchina fotografica la storia di cui sono testimoni.