Gentile Dottor Mainardi,
da molto tempo non le scrivo una lettera. I messaggi non mancano, anzi, sono aumentati, ma non dicono un granché, sono solo post-it attaccati alla porta del suo ambulatorio, un susseguirsi di promemoria: i figli da andare a prendere, la visita urgente della signora Quarneti, i suoi vestiti da ritirare in lavanderia. Ho smesso di lasciarle le mie proposte sotto l’uscio (Stasera dopo il lavoro? Domani mattina a colazione?), tanto non ottengono risposta. So che non è cattiveria, alla vita non bastano le sue ventiquattro ore. A dir la verità, ogni tanto penso ancora che, se il lavoro non le dà tregua e sua moglie la tratta con tirannia, beh, forse ha qualche peccato da scontare. Il mio risentimento e il suo sguardo da cane bastonato che tanto mi infastidisce ci hanno allontanati, siamo tornati a essere il medico e la segretaria, e ora anch’io concorro al suo stress. Ecco, questa sera ho pensato di scriverle una lettera per scusarmi e cercare di rimediare. Spero che il gesto verrà apprezzato. Come si sente? La notte la sogno, o meglio, la ricordo. La sua mano che mi afferra il polso con delicatezza, costringendomi a lasciar cadere la penna, lei che mi dice “Smetti di lavorare, è tardi” e mi tira a sé per baciarmi – o io mi alzo per avvicinarmi a lei, chi vuole chi per primo? Da molto non ci incontriamo più da soli: se vuole, possiamo smettere di provarci e lasciare che il tempo lavori. Se rincorriamo il tempo, lui scappa. Se lo lasciamo libero, prima o poi si volterà ad aspettarci.
La osservo nel suo peregrinare tra l’ingresso e l’ambulatorio: vorrei esclamare “Stia dritto con la schiena, non trascini i piedi! Non ciondoli”! Dondola come un vecchio galeone, antico re degli oceani, oggi relitto nei musei. Ma non glielo dico. Passa di fronte alla scrivania con muta espressione di supplica, come se il mio livore fosse un’ingiusta punizione, io rispondo con occhiate colme di stizza, come se fosse inadempiente nei miei confronti. Nel silenzio, continuiamo a fare il medico e la segretaria. Crede che non vorrei portarle conforto? Ma lei rifugge la possibilità di essere colti in atteggiamenti sconvenienti, che si aggiungerebbero alle già numerose preoccupazioni che non vuole affrontare. Per non intaccare la sua reputazione potremmo imbatterci l’uno nell’altra sulla strada verso lo studio; incamminandoci insieme (senza tenersi per mano), potremmo fermarci a prendere un caffè. Le nostre chiacchierate sarebbero, all’ascolto dei più curiosi, frivole, giacché non siamo abituati a intavolare lunghi discorsi. Per me sarebbe un ottimo esercizio di concentrazione: quando sono con lei mi distraggo, la conversazione mi risulta sempre difficile. Provo a mantenere il ritmo, a stare al passo, ma spesso perdo il filo, perché in realtà le sue labbra mi suggeriscono altri discorsi, altri movimenti, e quello che dico d’un tratto perde importanza al mio stesso orecchio.
Guardo i miei ultimi autoscatti fatti con la Polaroid. Scatto una foto dopo ogni nostro incontro per immortalare la sensazione di stanchezza mista a serenità che provo ogni volta che facciamo l’amore. Mi manca sentirmi bella sotto la tua mano. Quanti corpi hai visto nella tua vita, quanti corpi hai toccato, quanti ne hai avuti? Perché hai scelto il mio, alla fine? Mi chiedo se l’espressione che colgo sia la stessa che intercetti quando il tuo fiato appanna i miei occhiali. Quella di una donna appagata, non della ragazzina stizzita.
Ora sono nel mio studiolo, dove la sera compilo le schede di lettura. Mentre le scrivo, i dubbi avanzano: è già tornato nei ranghi? Forse questa distanza non dipende dagli impegni e dalle paure, ma dalla volontà di ravvedersi.
Per oggi lascio qui questa lettera a decantare, non porto carta e penna nel letto con me, così che la tentazione non mi segua.