Luoghi dell’anima – Episodio 1: la vasca da bagno

Gabriella Genovese, che mi domandi se sto cercando lavoro nel modo giusto, conosci la sensazione che si prova immergendosi in una vasca piena d’acqua bollente dopo una faticosa giornata lavorativa, con già il buio fuori di casa? Io sì, è un po’ come nuotare sul fondo del mare, improvvisamente sei isolato e i suoni percepiti sono diventati morbidi e ovattati. E poi la carne che cede tutta in un botto, il corpo si abbandona e diventa pesante: sei costretto a rimanere lì, a riposare.
Invece, i 45°C in Puglia ad agosto? Un altro tipo di calore. Quelli somigliano alle e-mail che mi mandi, ma anche a quelle di Page Personel, o della banca, adesso che ci penso anche a quelle con gli sconti per stampare le foto online. Non lasciate scampo.
Io il lavoro ora ce l’ho, esco alle 17, guadagno una cifra dignitosa – e con dignitosa intendo proprio dire che rispecchia la dignità umana, non che da oggi son ricca. Ho fatto qualche visita medica, ho comprato l’auto nuova. Ma quel sudore lì, di chi è circondato da qualcosa che non ha forma ma di cui si percepisce la potenza, quello non mi abbandona. Il fiato caldissimo sul collo, fare sempre, fare comunque, e soprattutto fare bene. Fare di più. Vedere di più gli amici, leggere di più, guardare più film, ascoltare più musica, partecipare di più, comprare di più, muoversi di più. Che caldo. Il mondo là fuori attende che io mi dia una mossa. Io voglio solo un bagno caldo, la porta chiusa, il rumore bianco dell’acqua che si sposta. Dimenticare il resto e uscire, forse, quando fa buio e tutti dormono.
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Sono le 16:54, pensavo fossero circa le 14. Sono nella vasca da bagno e i miei capezzoli mi stanno dicendo che l’esperimento con l’acqua fredda può anche considerarsi finito: è stato bello nuotare nelle pozze gelide e trasparenti della Majella, ma è ora di tornare nella comfort zone e aumentare le temperature. Avete ragione, capezzoli, ma non crediate di darmela a bene: lo so che fate così perché state ancora pensando a Marco, alla memoria di quel tocco subìto recuperate il turgore. Ma non si può, e forse dovrei buttare anche la testa sotto il getto freddo, a vedere se questa sbronza da sesso passa più in fretta. Ieri Marco era un po’ schifato, l’ho visto con la coda dell’occhio: guidava, ma si era accorto della mia operazione di spellamento. Non sopporto i rilievi sul corpo, schiaccio brufoli, tolgo le pellicine intorno alle unghie delle dita e le crosticine dai tatuaggi appena fatti. E se mi brucio, poi mi spello come una pesca. Stavamo facendo sesso, quando mi ho visto la mia pelle arrotolata e appiccicata come il vinavil; in un’altra occasione avrei faticato a mantenere la concentrazione, ma Marco ha questa capacità di annullare le mie volontà, se non quella di continuare a fare quello che facciamo insieme. Rimodulata la distanza interpersonale, le mie mani hanno cominciato a togliere la pelle, pezzettino per pezzettino. Conversavamo del più e del meno, lui manteneva lo sguardo sulla strada, mentre io grattavo via i lembi secchi sotto la maglietta, come un’appestata. È più di un anno che ci frequentiamo, eppure sento ancora l’imbarazzo di chi non ha ancora preso bene le misure e non sa a quanta spontaneità lasciarsi andare: lui non diceva nulla ma era visibilmente a disagio; avrei voluto smettere, ma proprio non ce la facevo, come quando mi mangio le unghie. Forse avrei dovuto dirlo al mio nuovo psicologo. Alla fine della prima seduta mi ha chiesto: “Pensa che siano stati toccati tutti i punti per i quali ha deciso di venire qui?” e io ho risposto “No, ne manca uno, ma non glielo voglio dire oggi”. Non credo di avergli instillato chissà quale curiosità, anzi, probabilmente sa già di cosa si tratta. Sono una ragazza banale, ho problematiche banali che rientrano in una logica ben precisa. Mi piace il mio terapeuta, i primi due minuti ho pensato fosse schizzato e mi sono preoccupata, balbetta, parla molto velocemente e ha l’atteggiamento stereotipato che mi aspettavo da uno psicoterapeuta di stampo jungano: sguardo perso verso il soffitto dello studio, gambe accavallate e “Lei mi deve dire tutto quello che le passa per la testa, anche quello che non ritiene importante, forse soprattutto quello che non ritiene importante”. Sì, come no: non riesco a tenere le dita di Marco lontano dalla mia bocca, non riesco a non mangiare un’intera torta al cioccolato in meno di dieci minuti, non riesco a non piangere quando dichiaro ad alta voce quello che penso, ma col cazzo che lascerò scorrere le parole in un flusso di coscienza davanti a uno sconosciuto. Forse anche questo dovrei dirlo, magari il problema sta qui.
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Sono arrivata, ma non voglio scendere dall’auto. Sono passati quattro giorni dal licenziamento di Tommaso e già non ne posso più. Sono un catorcio, stanca, non mi sento in grado di affrontare la giornata, le voci che si rincorrono, il capo che quantifica il tempo da impiegare per ogni operazione – tempo quantificato sulla base della sua esperienza, della sua conoscenza, dimenticando che lavoro qui da due mesi e mi ha chiesto di sostituire Tommaso meno di una settimana fa. Riaffiora l’immagine del mio collega che esce dall’ufficio del capo con in mano la lettera, sospiro, stringo ancor di più gli occhi. Da quanto tempo non vedo Marco? Da quanto tempo non sento quella voce vicino al mio orecchio? Quel suono basso, sussurrato. Mi pare sempre che scandisca le parole in base al mio movimento. Chi è l’onda, la sua voce o il mio corpo? Quando siamo insieme, il mio corpo riconosce il momento, riconosce la sensazione: è la vasca. Lui mi tocca, io cedo. Lui mi parla, tutto il resto sembra lontano. Lui entra, io mi immergo nell’acqua bollente.
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Aggiornamenti veloci: Qui potete scaricare Parola Aperta, il nuovo bimestrale ravennate promosso dal Comune di Ravenna e incentrato su storie e attualità interculturali: al numero zero ho partecipato anch’io;

La foto in copertina è insung yoon via Unsplash