Ieri sera tardi a Bolzano ho sentito rintoccare le campane di almeno quattro chiese. Hanno suonato per dieci minuti, dopo il primo dei quali ho capito che stava iniziando la veglia pasquale e ho deciso di aprire la finestra. Tra le testimonianze sui giornali, le conferenze stampa del Presidente del Consiglio e le dirette Instagram per accorciare le distanze, è stato il suono di quelle campane a far emergere in me una rassicurante empatia.
Quando ho capito cosa fosse successo in Cina e che il virus SARS-CoV-2 stava circolando da tempo in Italia, ho immaginato che la reazione non sarebbe stata all’altezza del problema. Buona parte della ragione sta nella memoria: gli atti terroristici fanno parte del mio vissuto (il primo che ricordo è l’attentato alle Torri Gemelle nel 2001, poi quelli in Spagna nel 2004 e a Londra nel 2005), una pandemia forse non l’hanno mai presa in considerazione neanche i miei genitori, che hanno più di settant’anni. L’AIDS, che ha terrorizzato la loro generazione, era già diffusa in tutto il mondo nel 1982, quando per la prima volta le venne attribuito un nome, ma i più la percepivano lontana: l’HIV era il virus dei froci, delle prostitute, dei drogati e delle persone dallo stile promiscuo. Nessuno chiedeva a gran voce un tampone, era una malattia da nascondere per non essere giudicati. Il SARS-CoV-2, invece, attacca nel momento in cui compiamo un atto fondamentale e comune a tutti: respirare. Per quanto l’Organizzazione Mondiale della Sanità abbia cercato di monitorare e prevenire il rischio epidemico e soprattutto di allertare i Paesi aderenti, l’Europa non ricordava più cosa volesse dire trovarsi a combattere contro un nemico invisibile che non attacca per ideologia, potere, soldi. La consapevolezza, comunque, non mi ha permesso di prevedere il corso degli eventi. Le due grandi fughe che si sono verificate da nord a sud mi hanno trovato impreparata, ero davvero convinta che ognuno di noi avrebbe agito con responsabilità e buonsenso. Ho pianto con la centralinista di Trenitalia quando, presa la decisione di tornare a casa dopo quasi un mese di isolamento, Conte ha varato il decreto che vietava lo spostamento da domicilio a residenza. Sono ancora da sola, in una città dove solo i kebbabari e alcune pizzerie fanno consegne a domicilio e quasi nessuna delle persone che incontri andando a fare la spesa alza gli occhi per salutarti. Non mi aspettavo neanche tutti questi morti, tantomeno il divieto di celebrare i funerali. In ogni caso, so che questo sacrificio accelererà i tempi di recupero più di quanto dicano i titoli di giornale. Ciò che mi preoccupa è l’apatia, non sarà facile ricominciare a stringere rapporti. Sono molto contenta per chi sta passando la quarantena almeno in coppia, aiuta a non dimenticarsi cosa voglia dire avere un proprio simile accanto. Io non ho neanche una pianta con cui parlare e lamentarmi attraverso un telefono, o leggere le lamentele altrui, non mi rende più vicina agli altri. Le dirette e le video chiamate sono un ripiego che pongono l’accento sulla lontananza, quindi, per chi può: toccarsi, preparare insieme il pranzo, stare uno di fianco all’altro a leggere in silenzio, litigare.
Invece, le campane. L’analisi razionale della realtà non basta a mantenerci sani, abbiamo bisogno di simboli di conforto e speranza. Io li ho trovati in quei dieci rumorosi minuti che hanno riempito la città, nella loro affermazione di normalità, la vita che continua. Ho sentito questo, nelle campane: “Non chiudetevi nel vostro silenzio, non fatevi fermare dall’immagine delle bare portate via dai militari. Vivete, per risorgere”.
Foto in copertina di Niels Fabry – Campanile nel Lago di Resia (Bolzano)